Skip to main content

Le vere vittime della camorra, come quelle di tutte le mafie, non si contano.

Le statistiche prendono in considerazione solo i numeri dei morti e dei feriti nel corpo. Le ferite dell’animo, la paura, l’insicurezza per i propri cari, restano fuori dal conteggio, eppure sono le ferite più gravi per la città di Eduardo, quelle che sanguinano di più, quelle che avranno le peggiori conseguenze nel corso della vita.

Rimanere coinvolti in un agguato di camorra è lacerante per chiunque. Difficile anche da raccontare. Ti senti in trappola, prigioniero. Come paralizzato, non sai se è meglio scappare, correre a perdifiato, o rimanere immobile, aspettando che la follia omicida passi. Attimi interminabili, in cui il sangue affluisce al cervello alla velocità della luce, ti fa venire le vertigini, ti fa battere il cuore all’impazzata. Un solo pensiero avverti con chiarezza: il bambino, occorre mettere in salvo il bambino che stavi accompagnando a scuola.

Erano in due, a bordo di una moto, ieri mattina al rione San Giovanni. Giovani, agili, arroganti, sanguinari. Criminali. Avevano fretta di portare la missione a termine. L’effetto sorpresa è fondamentale. Il capo ha comandato di fare il lavoro in modo “pulito”. Guai se mancheranno il bersaglio, guai se a cadere sotto i colpi sarà l’ennesima persona innocente. Le vittime innocenti creano confusione, richiamano sul territorio giornalisti e forze dell’ordine. La gente perbene, le scuole, le parrocchie, si mobilitano, scendono in strada, chiedono più controlli, più telecamere, più attenzioni. Se a morire, invece, è il bersaglio designato, “ò malamente”, lo sconcerto dura qualche giorno e poi tutto torna come prima. Stavolta, i killer non hanno sbagliato mira. Quasi certamente si è trattato di un regolamento di conti, la solita guerra tra bande. Liti per la spartizione del territorio, delle piazze di spaccio. Insieme ai due però, c’era il figlio di Pasquale, un bambino di quattro anni appena. Stava andando a scuola, come i suoi coetanei. Felice di essere accompagnato dal babbo e dal nonno. Un bambino troppo piccolo per avere la forza di guardare negli occhi la ferocia umana. O, per meglio dire, disumana. Una ferocia che non si fa problema di sparare all’ingresso di una scuola, davanti al sagrato di una chiesa, tra mamme e scolaretti pazzi di terrore. Il nonno è morto, il babbo è ferito, lui, il bambino, è rimasto illeso, è scritto sulle carte. Purtroppo “illeso” non è.
Prima di uccidere il nonno, di ferire il papà, quei colpi di pistola gli hanno trapassato l’anima.

Una lacerazione che non rimarginerà facilmente.

Don Modesto è il giovane parroco di questa periferia napoletana. Nel mese di novembre, insieme ad altri confratelli, fu ricevuto in prefettura, dal ministro Matteo Salvini, in visita alla città di Napoli. Fu bello sapere che il ministro dell’Interno aveva ascoltato i parroci e aveva accolto le loro richieste. Di quell’incontro, poi, non si seppe più niente. Quelle richieste naturalmente sono rimaste inevase, come una richiesta fastidiosa e petulante, come i problemi che attanagliano queste periferie abbandonate a sé stesse nonostante la fatica generosa delle forze dell’ordine. Periferie povere e degradate dove le diverse bande della camorra e della malavita si danno appuntamento, si incontrano, si scontrano, si fanno guerra. Una guerra spietata tra uomini spietati ai quali non importa nemmeno la vita dei bambini.