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Stessi esecutori, forse gli stessi mandanti. Il 23 Giugno 1980, il Magistrato Mario Amato viene assassinato dai NAR a soli 43 anni, mentre è in attesa dell’autobus che lo dovrebbe portare in Tribunale.

Indagava sui terroristi neri e aveva intuito l’intreccio occulto in cui maturò la strage di Bologna. Dava fastidio ai superiori e non fu protetto. Il 23 giugno di 40 anni fa i Nar gli spararono alla nuca e per l’Italia fu l’inizio dell’estate più tragica della storia repubblicana. Oggi all’Eur, nel punto in cui fu ucciso a Roma, il 23 giugno di quarant’anni fa, c’è una stele di pietra della Maiella intitolata Grido al cielo, scolpita dallo scultore Antonio Di Campli, raffigura il passaggio dalla vita terrena a quella spirituale.

Quella mattina alle otto il giudice Mario Amato salutò la moglie Giuliana e i figlioletti Sergio e Cristina e uscì d­i casa per prendere l’autobus in viale Jonio. Lo attendevano due terroristi della sigla neofascista Nar. Gilberto Cavallini gli sparò alla nuca, poi fuggì su una Honda guidata dall’allora minorenne Luigi Ciavardini.

Per l’Italia fu l’inizio dell’estate 1980, la più tragica della storia repubblicana, con la strage dell’aereo DC-9 nei cieli su Ustica (27 giugno), 81 morti, e la strage della stazione di Bologna (2 agosto), 85 morti, il più grave atto terroristico del dopoguerra. Per il giudice, fu la fine tragica di tre mesi di calvario: pressioni, avvertimenti, minacce, ad opera di quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerlo e che invece lo abbandonarono. Il suo delitto è strettamente intrecciato alla strage di Bologna. Stessi esecutori, forse gli stessi mandanti. Una scia di sangue in un solo disegno eversivo e anti-democratico.

Il Procuratore Amato fu tradito da uomini dello Stato. Fu alto tradimento.

Sergio Amato, un uomo di 46 anni, fiero, con gli occhi appassionati identici a quelli del padre, non ama l’iconografia emotiva del delitto, come la foto della scarpa bucata sotto il lenzuolo che copriva il cadavere. Come in un passaggio di testimone, la ricerca del padre è diventata la sua. Cita a memoria gli atti giudiziari che riguardano l’omicidio del giudice: carte ingiallite, gli appunti a mano sull’agenda con la penna blu, rossa e verde, le relazioni battute a macchina, con le richieste di rinforzi che non arriveranno mai e una convinzione inflessibile. “Ritengo di dover tutelare non solo la mia dignità, ma anche quella della funzione che esercito”, disse al Consiglio superiore della magistratura dieci giorni prima di essere ucciso. Incaricato dalla Procura di Roma di indagare sulla destra eversiva e sui legami della stessa con la Banda della Magliana e la malavita camorrista, Amato venne lasciato solo dai suoi superiori nella sua difficile missione e soprattutto gli venne negata la protezione che gli avrebbe evitato il destino in cui incorse.

Chi uccise questo magistrato onesto, professionale, scrupoloso, coraggioso, un uomo molto lontano dai clamori e dalle luci della ribalta mediatica tipici del Tribunale di Roma. Amato stava andando al lavoro a piazzale Clodio con l’autobus, perché l’auto blindata, che aveva richiesto occupandosi di indagini “a rischio”, gli era stata negata con la burocratica giustificazione che gli autisti sarebbero stati disponibili soltanto a partire dalle 9 di mattina, mentre Amato era uso essere al lavoro al Tribunale già alle 8. Dopo il suo omicidio, al Tribunale furono assegnate trecento vetture blindate e il Procuratore Generale Giovanni De Matteo, che lo aveva lasciato di fatto solo nel suo lavoro d’indagine, fu inquisito dal Consiglio Superiore della Magistratura, che lo trasferì ad altro incarico presso la Corte di Cassazione. Amato ebbe incarico dal Procuratore Generale Giovanni de Matteo di riprendere le indagini avviate dal magistrato Vittorio Occorsio, che era stato ucciso mentre indagava sul gruppo di destra eversiva dei NAR e sul neofascista Pierluigi Concutelli (le indagini dimostrarono successivamente che fu proprio il Concutelli l’autore dell’omicidio Occorsio). Amato ebbe allora la promessa – mai mantenuta – di essere affiancato da un gruppo di colleghi. Ma ciò non avvenne mai.

Con Vittorio Occorsio, Mario Amato fu il primo magistrato a tentare una “lettura globale” del terrorismo. Attraverso i parziali successi delle indagini su singoli episodi terroristici disse davanti al Consiglio Superiore della Magistratura il 13 giugno 1980 – solo dieci giorni prima di essere ucciso : “sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli atti criminosi.” Amato riuscì a ricostruire le connessioni tra destra eversiva e Banda della Magliana e intuì i legami tra massoneria, sottobosco finanziario, economico e potere pubblico. Fu però lasciato solo a svolgere queste indagini, isolato dai suoi superiori e oggetto di continui attacchi da parte del collega giudice Antonio Alibrandi (padre del terrorista dei NAR Alessandro e fedelissimo di Giusva Fioravanti).

In una Procura della Repubblica che sarà poi chiamata spesso dalla stampa, riprendendo il titolo di un’opera di Georges Simenon, “Il porto delle nebbie”,  Amato era destinato ad entrare presto così nel mirino della destra eversiva e terroristica. Il terrorismo nero fu da lui perciò indagato nella più sconsolante solitudine e solo rimase fino alla mattinata del 23 giugno 1980 poche settimane prima della Strage di Bologna. Mentre attendeva un autobus alla fermata posta all’incrocio tra Viale Jonio e Via Monte Rocchetta, il sostituto procuratore fu raggiunto alle spalle da Gilberto Cavallini che gli esplose alla nuca un colpo di rivoltella fatale, per poi fuggire con una motocicletta che lo aspettava, alla cui guida era l’altro NAR Luigi Ciavardini.