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A vent’anni dalla Convenzione di Palermo, “stroncare sul nascere il ritorno di un protagonismo delle organizzazioni criminali”. Non solo azione penale, anche tecnologie e innovazione nel nostro “armamentario antimafia unico al mondo”.

Il 15 dicembre di vent’anni fa, a Palermo, si firmava la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale.

A ispirarne i lavori, furono le straordinarie intuizioni giuridiche, investigative e di cooperazione internazionale di Giovanni Falcone.
Il ricordo, dunque, non può ridursi una mera celebrazione, deve provare a essere all’altezza del tempo grave che stiamo vivendo, interrogarci sull’attualità di quel percorso, portarci ad affrontare le sfide del presente.  Nelle crisi, anche in questa così profonda, le aree grigie di illegalità possono trovare opportunità di espansione e investimento. Le mafie provano a occupare spazi lasciati vuoti, rispondendo a bisogni di liquidità immediata dei cittadini e delle imprese, approfittando dei fallimenti per comprare al ribasso e ricattare. Le misure anticrisi di questi mesi hanno fatto da argine,
segno di uno Stato non disposto a lasciare spazi alle mafie.

Ma non basterà, come non basta l’azione repressiva di magistratura e forze dell’ordine, che in questi mesi di pandemia non si è arrestata. La sfida, una sfida rivolta anche alle organizzazioni criminali, è ora uscire dalla crisi con uno sviluppo e un’innovazione che si
coniughino con i diritti, con la giustizia sociale e, dunque, con la legalità costituzionale. La nuova stagione di investimenti per la ripresa e la resilienza dell’Italia, tra le molte missioni che si pone, dovrebbe assumere questo obiettivo chiaro, e dichiararlo: stroncare
sul nascere il ritorno di un protagonismo delle organizzazioni criminali.

La precondizione per combattere le mafie è saperle riconoscere, essere in grado di comprenderne le tracce. Quando Giovanni Falcone avviò la collaborazione con Buscetta disse di aver trovato la stele di Rosetta delle mafie, di aver incontrato “un professore di lingue che ti insegna ad andar a parlare coi turchi senza parlare coi gesti”. Il riconoscimento delle mafie è un percorso non solo giuridico. Ha una forte dimensione sociale, di consapevolezza e di lotta. La stessa Convenzione di Palermo si inserisce in questo cammino di riconoscimento e di lotta.

Dopo le stragi, abbiamo scoperto un’Italia diversa, che ha saputo reagire, sia con le sue istituzioni che con una società civile organizzata. L’Italia, a partire dai passaggi drammatici e dal sacrificio degli uomini delle istituzioni, ha fabbricato un armamentario antimafia unico al mondo, e per questo da mettere al servizio del mondo. Il maggior successo della Convenzione di Palermo è stato quello di dotare tutte le nazioni di un lessico di riconoscimento comune, per contrastare mafie che non si sono mai fermate ai confini, che hanno anticipato la globalizzazione con traffici illeciti e riciclaggio su scala
globale. Le mafie operano nel ventre molle delle nostre economie globalizzate e proliferano nei territori subordinando al profitto ogni valore di legalità. La Convenzione ha gettato le basi per il contrasto transnazionale al riciclaggio, permettendo da lì a poco di applicare gli stessi strumenti anche contro fenomeni come il terrorismo internazionale. “Follow the money” è l’intuizione di Falcone sempre più attuale. Aver identificato la mafia solo col sottosviluppo, economico e culturale, è stato un grave errore di riconoscimento.

Mentre le politiche pubbliche ancora oggi stentano a unire il Paese, lo dico alla luce degli sforzi compiuti in questi mesi, forse senza precedenti, per superare vecchi e nuovi divari territoriali, le mafie hanno realizzato da tempo una coesione territoriale perversa, proliferando con connessioni profonde dal Sud al Centro al Nord del Paese.

Facendo leva su questa consapevolezza, oggi abbiamo il compito di rilanciare la nostra strategia di prevenzione alle mafie. Di passare dalla logica della reazione alla capacità di anticipare le mosse della criminalità organizzata, per prosciugare le paludi dell’illegalità da cui si alimenta.

Abbiamo cercato di operare con questa logica nei primi mesi della
pandemia, per esempio con misure di sostegno ai cittadini e alle
imprese nei contesti più fragili, negli spazi economici e sociali in cui
le mafie cercano di guadagnare consenso e potere. Abbiamo
cercato di far emergere gli invisibili, coloro che subiscono lo
sfruttamento e la schiavitù, e del resto la Convenzione di Palermo
resta un pilastro alla lotta dei fenomeni di tratta internazionale. C’è
ancora molto da fare, a livello nazionale ed europeo, sul fronte della
piena integrazione e di una gestione dei flussi migratori all’insegna
del diritto, della ragione e dell’umanità.

Ma l’inversione di tendenza è chiara rispetto al recente passato del nostro Paese, con l’archiviazione della pagina nera dei “decreti Salvini”. Siamo al lavoro, con la Ministra Lamorgese, per affiancare gli interventi per la valorizzazione dei beni confiscati con il rafforzamento delle misure antiracket e antiusura, per trasformare la crisi in una stagione di riscatto da attività parassitarie e che negano la libertà di impresa.
Ma ora serve un salto di qualità generale. Insieme al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è urgente un piano nazionale contro le mafie, che definisca obiettivi condivisi per tutte le amministrazioni dello Stato, con un programma chiaro che identifichi le priorità e i risultati.

A istituzioni permeabili bisogna opporre istituzioni trasparenti, forti perché veloci nel rispondere ai bisogni dei cittadini, perché capaci di aprirsi alla partecipazione e al
controllo democratico. Per realizzare tutti gli investimenti pubblici che potremmo attivare nei prossimi anni abbiamo bisogno di “rigenerare” la pubblica amministrazione. Si è sempre parlato di un trade-off tra controllo di legalità e semplificazione.

È inevitabilmente così?

Io credo di no, e un contributo può venire dalle nuove tecnologie, dall’innovazione nella macchina pubblica. Un percorso di semplificazione fondato su centrali di committenza unificate, standardizzazione e digitalizzazione delle procedure e dei bandi può metterci al riparo dalle infiltrazioni mafiose e al tempo stesso accelerare gli investimenti.

La strada di commissariamenti generalizzati non è percorribile, dobbiamo coniugare
semplificazione e legalità, con una straordinaria opera di rinnovamento delle amministrazioni, e ho proposto una norma in legge di bilancio, per il reclutamento di alte competenze tra le nuove generazioni, quasi tremila per la gestione e la realizzazione
degli interventi della politica di coesione nei contesti territoriali più difficili. E tuttavia le istituzioni da sole non bastano, le politiche pubbliche devono poggiare sempre più sulla partecipazione, sul partenariato economico e sociale, sulle reti di cittadinanza, sul
protagonismo del terzo settore.

Nelle politiche di coesione lo stiamo facendo, è la cittadinanza attiva il vero argine alla penetrazione mafiosa. Lo Stato italiano ha eretto il recinto dell’azione penale
antimafia, ora deve uscirne fuori. Non solo guardando alla dimensione sovranazionale dell’azione di contrasto, ma guardando all’evoluzione delle mafie in tutti gli ambiti della vita economica e sociale. Per un’antimafia che accompagni la grande stagione d investimenti europei e nazionali dei prossimi anni, per parlare alla generazione che non ha un ricordo personale né del 1992 né del 2000.

Per chiudere i “varchi” vecchi e nuovi dell’ordinamento in cui le organizzazioni criminali cercano di incunearsi. Per orientare la definizione delle politiche attraverso processi partecipati, trasparenti, democratici. Più di tre anni fa, a Milano, l’Italia aveva intrapreso un percorso, gli Stati generali della lotta alle mafie, fortemente voluto dall’allora Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha coinvolto e attivato studiosi e operatori, forze
intellettuali, politiche e sociali, e a cui avevo collaborato.

Proporrò al Consiglio dei Ministri di ripartire da lì. Perché il contrasto alle mafie
non è mai un costo, un fardello burocratico: è la condizione per liberare le energie nella ripartenza. Vent’anni fa, a Palermo, lo abbiamo detto al mondo.

Oggi, è tempo di ripeterlo a noi stessi.